Attraverso
il “pratone”
tracce di
wilderness agreste
contaminata
di scorie urbane,
di malattie
urbane,
sopravvivono
in questo luogo estraneo:
qualche
coniglio
(forse
malato?)
grandissimi pioppi, probabilmente secolari
dai rami qualche sperduto cinguettio tranquillo, immerso in una pace atemporale,
le tracce
dei fossi
di questi
che fino a poco tempo fa
furono
campi,
alcuni resti
in pietra
d’una
chiusa;
a un certo
punto
esco dal
sentiero
e taglio
dentro al grande prato:
piccoli fori
di insetti nel terreno
(immagino
formiche);
grandi buche
profonde,
scavate dai
cani,
o dai
conigli,
o entrambi,
animali che
furiosamente marchiano il territorio,
e sbrigliati
corrono, giocano,
qui dove
hanno la loro libertà.
Per terra noto un vecchio osso,
quasi sicuramente di coniglio,
segno enigmatico di Potere,
indizio di notti predatorie probabilmente di gatti randagi,
rosicato fino all'impossibile.
Per terra noto un vecchio osso,
quasi sicuramente di coniglio,
segno enigmatico di Potere,
indizio di notti predatorie probabilmente di gatti randagi,
rosicato fino all'impossibile.
Mentre
attraverso a grandi passi
il vecchio
campo
osservando
ogni indizio di vita selvatica
(qui è come
un’isola:
il rumore
asettico
il caos
urbano è a pochi metri,
ma non
arriva
qui l’uomo
torna ad essere
stranamente
solo con gli elementi
stranamente
vuoto e libero con sé stesso
senza
accorgersene
torna a
riaffondare le sue radici alienate
nella nuda
terra,
come un
vecchio contadino,
un’antica
quercia,
o un giovane
lupo,
torna a risollevare
lo sguardo ferito
e le ali
stanche
nel possente
terso cielo aperto, sgombro),
una
cornacchia, planando sopra di me
attraversa
il cielo come fosse un’aquila,
attraversa
anche il mio Spirito,
risvegliando
la vastità ruggente dello spazio interiore
andandosi a
posare sull’albero di fronte a me
come
sfidandomi,
o come
riconoscendomi,
in un
fraterno placido
grido
selvaggio.
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